Franco Fontana. Il colore è vita

Ho conosciuto Franco Fontana per caso, proprio all’inizio della nostra avventura editoriale, quando eravamo tra i pochi, forse gli unici, a produrre podcast dedicati alla fotografia. Fu in quell’occasione che Lisa Bernardini ci invitò come media partner a un festival fotografico da lei organizzato a Nettuno, alle porte di Roma. Col senno di poi, guardando a come sono cambiati i festival in Italia negli ultimi anni, posso dire che quello è stato uno dei migliori a cui abbiamo partecipato.

Non aveva grandi pretese internazionali, né cercava visibilità a tutti i costi attraverso i social. Era un festival semplice, diretto, pensato per far incontrare persone, farle parlare, confrontarsi. Le fotografie in mostra spaziavano dai grandi nomi agli appassionati selezionati con cura, anche se lontani dal mondo professionale — quelli che la fotocamera la portavano sempre con sé, anche quando pesava parecchio, come succedeva più di dieci anni fa.

Il festival si teneva al Forte San Gallo, una struttura rinascimentale affacciata sul mare, verso la fine di agosto. Lisa ci lasciò liberi di scegliere la postazione. All’epoca registrare un podcast di qualità era tutt’altro che semplice: servivano computer, mixer, microfoni e un bel po’ di attrezzatura. Complice il caldo, trovammo un punto strategico dove si incrociavano tre correnti d’aria. Fu una scelta azzeccata: non avevamo bisogno di andare in cerca di ospiti, venivano loro da noi, anche solo per rinfrescarsi un po’, visto che l’aria condizionata era assente.

È lì, in quel via vai di visitatori e autori, che incontrammo Franco Fontana.

Arrivò nel tardo pomeriggio e cominciò a osservare con attenzione le fotografie esposte. Un piccolo gruppo di appassionati lo seguiva, mentre lui si fermava davanti a ogni fotografia, anche quelle realizzate da non professionisti. I nostri sguardi inevitabilmente si incrociarono: con il tavolo pieno di cavi, mixer e microfoni era difficile passare inosservati. Ci avvicinammo con un po’ di timidezza, ci presentammo, e lui accettò con grande cordialità di farsi intervistare. Alla fine, scattammo una foto che è ancora oggi la nostra immagine di presentazione: c’è tutto — l’allegria, la passione, la spensieratezza, e con noi Franco Fontana, simbolo della grande fotografia.

Quella foto rimase per anni nascosta nel nostro archivio digitale, finché, provando una stampante Instax Link di Fujifilm, decisi di stamparla in formato quadrato, in bianco e nero. L’anno scorso, un po’ titubante, pensai di farla firmare. Franco Fontana era ospite di un talk a Latina, in occasione di una sua piccola mostra e della presentazione di un nuovo libro. Partii con largo anticipo, ma a metà strada mi resi conto del dettaglio: stavo per chiedere al maestro del colore di firmare una foto in bianco e nero. Così tornai indietro, ristampai la versione a colori (anche se continuo a preferire quella in bianco e nero) e ripartii.

Arrivato lì, poco prima dell’inizio del talk e con la sala ancora semi vuota, mi feci avanti. Ero emozionato, non volevo sembrare invadente con un ricordo così personale. Fu sua moglie Uti a notare la mia esitazione e a incoraggiarmi: “Fagliela firmare.” Alla fine, ne firmò quattro: una per ciascuno di noi presenti nello scatto.

Discorsi Fotografici e Franco Fontana
Discorsi Fotografici e Franco Fontana © 2012 Discorsi Fotografici

In quell’occasione mi invitò a visitare la grande retrospettiva che il Comune di Roma gli stava per dedicare all’Ara Pacis. La mostra è iniziata lo scorso dicembre, ma sono andato a vederla solo di recente, prima ancora che venisse annunciata la proroga. L’ho fatto in quel periodo perché è il momento dell’anno più vicino a quando l’ho incontrato la prima volta. Una scelta poco giornalistica, forse, ma profondamente personale.

La storia creativa di Franco Fontana inizia nell’infanzia, subito dopo la Seconda guerra mondiale: terminate le elementari, intraprende la scuola media, che però abbandona quasi subito, annoiato, preferendo trascorrere le mattinate nei prati alla periferia di Modena. Da lì prende avvio la sua avventura lavorativa, fatta di esperienze diverse: consegna la spesa per un salumiere, lavora come banconiere, in una ditta di vini e, per un breve periodo, come parrucchiere. Infine, entra in società con un negozio di mobili a Milano, attività che gli consente di ottenere successo e costruire una solida base finanziaria.

È in questo momento che compie un bilancio sulla propria vita, riflettendo sul tempo e sulla consapevolezza: “Si comincia a capire la vita a quarant’anni. Io ho cominciato a quarant’anni a capire un po’ cosa significa stare al mondo, perché avevo trovato la mia strada, il significato della vita”. Nel marzo del 1976 decide di vendere la sua quota, ricavando una cifra che gli permette di dedicarsi completamente alla fotografia. “Non per fare il fotografo come mestiere, ma come un pittore, per esprimere la mia creatività”. Il successo arriva subito: le sue fotografie vengono apprezzate e, soprattutto, riconosciute come vere opere d’arte.

La mostra – una ricca retrospettiva curata da Jean-Luc Monterosso – si apre con un ritratto sorridente di Franco Fontana, come sua abitudine, realizzato dal compianto Giovanni Gastel, rigorosamente in bianco e nero. Conclusa la lettura del pannello introduttivo, ci si immerge nel mondo colorato di e da Franco Fontana: un universo fatto principalmente di paesaggi irripetibili. Non esiste, infatti, la possibilità di ricreare esattamente la stessa immagine, e questo rende le sue fotografie lontane da quella ripetitività che spesso caratterizza la fotografia contemporanea. Con il suo lavoro, Fontana porta le persone a vedere la fotografia nella realtà, a riconoscerla come parte di essa e non il contrario.

Il paesaggio è diventato paesaggio quando io l’ho identificato

Per lui, la fotografia nasce da dentro. Non è qualcosa che si possa insegnare né tanto meno imparare nel senso tecnico del termine: è, prima di tutto, un dialogo costante con le proprie emozioni. Non si fotografa ciò che si vede, né ciò che è già stato visto, ma ciò che si è maturato interiormente. Fotografare, dunque, non significa scoprire qualcosa di nuovo nel mondo, ma riconoscere, nel reale, qualcosa che esisteva già dentro di sé. Il momento dello scatto è l’istante in cui quell’immagine interiore, intuitivamente percepita, trova una sua forma visibile. Non si tratta di documentare ciò che accade, ma di trovare, fuori da sé, ciò che si era già visto dentro.

È inutile spiegare come si fa una fotografia. È un fatto spontaneo. Io vado in giro e fotografo quello che ho già dentro di me. Esiste già quello che fotografo. Quando vado a fare una fotografia, la vado a fare perché l’ho già fatta dentro di me. Sono fotografie nuove. Nei miei poster e nelle mie immagini non ci sono Milano, Roma… una fotografia vale per tutte. È un luogo universale”.

In questo processo di ricerca interiore, il colore assume un ruolo fondamentale: per Franco Fontana, il colore è la vita. Si comprende appieno questa necessità solo guardando le fotografie stampate, capaci di svelare il mistero di un’immagine che diventa arte. È una festa per gli occhi, che vengono stimolati a guardare un mondo che sai che c’è, ma non lo vedi; lo desideri, e quando osservi quelle fotografie, lo vuoi ancora di più. Sono fotografie di pace, di accoglienza, di serenità. Ma sono anche fotografie che invitano a prendersi cura di sé, a dare colore alle proprie emozioni, a pensare in positivo.

Quando ho cominciato a fare colore, il colore lo usavano in pochissimi, solo quelli che facevano i dolci (intende le fotografie per le riviste di cucina N.d.A.)  Il colore è la vita. Io sono stato uno dei primi a interpretarlo. Il colore va vissuto da dentro. Non è che la mia sia una fotografia a colori: io fotografo la vita, che è a colori”. Ed è così forte questo sentimento che nelle sue fotografie, un dettaglio può trasformare tutto: “Un punto di rosso può condizionare anche uno spazio enorme. Non dobbiamo semplicemente vivere il colore, ma interpretarlo, dargli significato. Non esiste un colore migliore di un altro. Io interpreto il colore”.

I paesaggi di Franco Fontana, pubblicati in tutto il mondo, hanno un carattere compiuto, definitivo: non c’è nulla da aggiungere. Sono la prova felice che la fotografia può essere arte, capace di dialogare con altre opere, meno fotografiche, più pittoriche. Viene in mente Grande Bianco Bis di Alberto Burri, realizzato nel 1968 e conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un’opera che trova un legame concettuale con la fotografia Appennino, 1962, di Franco Fontana. Entrambe si muovono nel campo della creatività, entrambe si incontrano nel bianco e poi si separano: una scivola nel nero, l’altra in un azzurro intenso; entrambe un capolavoro. Proprio in questa tensione tra astrazione e realtà si inserisce la serie Skyline, pubblicata nel 1978, in cui Franco Fontana porta alle estreme conseguenze la sua visione. Qui, il paesaggio si riduce a segni essenziali: linee, colori, superfici. L’orizzonte diventa protagonista, elemento di rottura e di equilibrio, mentre il colore – ormai affrancato da ogni intento descrittivo – assume un valore autonomo, quasi assoluto. È l’inizio di una nuova grammatica visiva, capace di spingere la fotografia verso territori astratti e minimalisti, come accade in Comacchio, esempio emblematico di questa rivoluzione.

 “Una volta finito un mio paesaggio, non c’è niente da aggiungere, niente da togliere. Sono paesaggi che diventano significato.”

In questa riduzione all’essenziale, dove ogni elemento è segno, si inserisce anche un altro affascinante livello di lettura: il parallelismo tra natura e corpo umano. Un accostamento che Franco Fontana esplora con delicatezza, senza forzature, lasciando che siano le forme, le linee, le curve a suggerire somiglianze. La presenza dell’elemento femminile, spesso ricorrente nel suo lavoro, emerge in modo chiaro nella serie Paesaggio, 1977, e ancora più esplicito in un paio di accostamenti presentati in mostra, dove lo stesso Nudo, 1969 è prima accostato a Emilia, 1974 e poi a Toscana, 1995. Due immagini più o meno lontane nel tempo e apparentemente nel soggetto, ma sorprendentemente affini nella struttura compositiva e nel ritmo visivo. La pelle e la terra, il corpo e il paesaggio, diventano materia dello stesso sguardo.

Un altro aspetto particolarmente interessante che emerge con forza nel percorso espositivo è l’idea di una natura universale, inclusiva, senza gerarchie. Nei paesaggi di Franco Fontana non esistono differenze: la natura accoglie tutto e tutti. Lo si percepisce soprattutto osservando le fotografie delle nuvole, realizzate in luoghi diversi ma con identica esposizione. Il risultato è sempre lo stesso: immagini che annullano ogni distinzione, restituendo un senso di appartenenza comune, al di là dei confini geografici e culturali. In questo senso, è significativa anche l’opera Puglia, 1995, che non ritrae un paesaggio reale ma immaginato, frutto di una raffinata elaborazione digitale. Una composizione che, pur nella sua astrazione, rafforza il legame tra visione e interiorità, dimostrando come le sintografie possano dar forma a una natura condivisa, anche quando non esiste nella realtà. Questa tensione verso l’essenziale si esprime, dunque, anche attraverso la sperimentazione, che per Franco Fontana rappresenta un elemento imprescindibile del suo lavoro. Non conta come si ottiene una fotografia, ma perché la si fa. È il senso, non la tecnica, a guidare lo sguardo. In questo approccio, ogni fotografia è una domanda, non una risposta.

Nel lavoro di Franco Fontana tutto tende all’essenza, ma nulla è mai semplice. I suoi paesaggi non descrivono, evocano. Le sue linee non delimitano, suggeriscono. Ogni fotografia è un atto di visione che va oltre il soggetto, oltre il luogo, oltre il tempo. Che sia un’autostrada, una piscina, una nuvola, un corpo o un muro d’asfalto, ciò che conta non è l’oggetto in sé, ma lo sguardo che lo trasforma. Il percorso di Franco Fontana è un invito a vedere diversamente. A cercare il senso prima della forma, a capire che il colore non è un ornamento, ma una posizione, che la fotografia non è una tecnica, ma una responsabilità.

Guardare le sue fotografie significa allora accettare il paradosso di una visione astratta, eppure profondamente concreta. Una fotografia che non riproduce il mondo, ma lo ricrea. E che proprio per questo, continua a parlarci, al di fuori del tempo, con la stessa intensità del primo sguardo.

“Le mie fotografie sono come la musica: hanno uno scopo, quello di emozionare”.

Federico Emmi


Franco Fontana. Retrospective
Museo dell’Ara Pacis
13 dicembre 202414 settembre 2025


Cover Image: Phoenix, 1979© Franco Fontana


Le citazioni sono tratte dall’intervento di Franco Fontana in occasione della presentazione del volume “Invisibile” presso il Museo Civico Duilio Cambellotti di Latina, il 14 aprile 2024